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3096 Giorni Quotes

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Natascha Kampusch
“Meno di ogni altra cosa mi fu perdonato che non condannassi il rapitore come l’opinione pubblica si aspettava. Non volevano sentirmi dire che non esiste un male assoluto, una netta distinzione tra bianco e nero. Sicuro, il rapitore mi aveva tolto la mia adolescenza, mi aveva imprigionato e torturato, e tuttavia negli anni decisivi tra il mio undicesimo e diciannovesimo anno di vita, era anche stato la mia unica figura di riferimento. Fuggendo, non mi ero soltanto liberata del mio aguzzino, ma avevo perso anche una persona che mi era stata inevitabilmente vicina. Ma, per quanto possa essere difficile da comprendere, non mi era concesso portare il lutto. Non appena cominciavo a tracciare un quadro diversificato del rapitore, la gente alzava gli occhi al cielo e volgeva lo sguardo altrove. Le persone si sentono spiacevolmente toccate quando le categorie di Bene e Male vacillano e loro devono confrontarsi con il fatto che anche la personificazione del Male ha sembianze umane. Il lato oscuro di un criminale non cade dal cielo, nessuno nasce mostro. Noi tutti diventiamo quello che siamo attraverso il contatto con il mondo, con altre persone. E così, in definitiva, siamo tutti responsabili di quello che succede nelle nostre famiglie, nel nostro ambiente. Confessarselo non è facile. E diventa molto più difficile, quando qualcuno mette davanti a un altro lo specchio che non è previsto per questo. Con le mie dichiarazioni ho toccato un punto dolente e tentando di scoprire l’essere umano dietro la facciata dell’aguzzino e del moralizzatore, ho suscitato incomprensione.”
Natascha Kampusch, 3096 Days

Natascha Kampusch
“La partecipazione che viene dimostrata a una vittima è ingannevole. Si ama la vittima solo quando ci si sente superiori a essa. Già con il primo fiume di lettere che ricevetti, ne arrivarono anche dozzine che suscitarono in me una spiacevole sensazione. C’erano molti stalker, lettere d’amore, proposte di matrimonio e le lettere anonime perverse. Ma anche le offerte di aiuto rivelavano cosa si nascondeva nell’animo di tanta gente. C’è un meccanismo umano che ci fa sentire meglio quando si può aiutare qualcuno più debole, una vittima. Questo funziona solo fintantoché i ruoli sono chiaramente spartiti. La riconoscenza nei confronti di chi dà, è una bella cosa; solo quando se ne abusa per impedire all’altro di svilupparsi, allora acquista un retrogusto insipido. [...]
Fui profondamente contenta di ogni sincera partecipazione e di ogni sincero interesse per la mia persona. Ma diventava difficile quando la mia personalità era ridotta a quella di una ragazza bisognosa di aiuto e rovinata. Questo è un ruolo al quale non mi sono piegata e che non desidero assumere neanche in futuro.
Nonostante tutte le bassezze psicologiche e le oscure fantasie di Wolfgang Priklopil, non mi ero lasciata spezzare. Adesso ero fuori ed era proprio quello che la gente voleva vedere: un essere umano spezzato, che non si sarebbe più risollevato e che sarebbe sempre dipeso dall’aiuto degli altri. Nel momento in cui mi rifiutai di portare questo marchio per il resto della mia vita, l’umore cambiò.”
Natascha Kampusch, 3096 Days

Natascha Kampusch
“Con questo libro ho cercato di chiudere il capitolo, fino a oggi, più lungo e cupo della mia vita. Sono profondamente sollevata di esser riuscita a trovare le parole per esprimere tutto l’impronunciabile, tutte le contraddizioni. Vederle stampate davanti a me, mi aiuta a guardare avanti con fiducia. Perché ciò che ho vissuto, mi ha reso anche forte: sono sopravvissuta alla prigionia nella segreta, mi sono liberata da sola e non mi sono piegata. So che sono in grado di destreggiarmi anche nella vita in libertà. E questa libertà comincia adesso, quattro anni dopo il 23 agosto 2006. Solo adesso posso tirare una riga e dire veramente: sono libera.”
Natascha Kampusch, 3096 Days

Natascha Kampusch
“Gli adulti sanno che smarriscono un pezzo di se stessi, quando si trovano a dover affrontare situazioni che, prima di verificarsi, erano fuori da ogni immaginazione. La superficie su cui poggia la loro personalità si incrina. E, tuttavia, adattarsi è l’unica reazione giusta, perché assicura la sopravvivenza. I bambini agiscono in modo più intuitivo. Io ero intimidita, non opposi resistenza, cominciai bensì a sistemarmi, per il momento, solo per una notte. A pensarci oggi, mi pare quasi sconcertante il modo in cui il panico lasciò il posto a un certo pragmatismo. Come capii alla svelta che supplicare non aveva senso e che ogni parola sarebbe scivolata via su quel giovane uomo. Come intuii istintivamente che dovevo accettare la situazione, se volevo superare una notte infinita in quella cantina.”
Natascha Kampusch, 3096 Days

Natascha Kampusch
“Niente è solo nero o solo bianco. E nessuno è soltanto buono o cattivo. Ciò valeva anche per il rapitore. Queste sono frasi che non si ascoltano volentieri quando sono pronunciate dalla vittima di un rapimento. Perché così viene meno lo schema ben definito di Bene e Male che utilizziamo volentieri per non perdere l’orientamento in un mondo pieno di sfumature grigie. Quando parlo di questo, sul volto di qualche estraneo mi pare di vedere irritazione e rifiuto. L’empatica partecipazione al mio destino provata fino a quel momento, si raggela e si trasforma in rigetto. Le persone che non hanno alcuna idea di cosa significhi davvero essere prigionieri, mi negano la facoltà di giudicare le mie esperienze usando una sola espressione: sindrome di Stoccolma. “Con Sindrome di Stoccolma s’intende un fenomeno psicologico, per cui un ostaggio instaura un rapporto emotivamente positivo con i suoi sequestratori. Questo può implicare che la vittima simpatizzi con i criminali e cooperi con loro” – così sta scritto nel dizionario enciclopedico. Una diagnosi che io rifiuto decisamente. Perché, per quanto gli sguardi di coloro che buttano là questo concetto possano essere pieni di compassione, l’effetto è terribile. Questo giudizio rende la vittima, infatti, due volte vittima, perché la priva dell’autorità di interpretare la propria storia; gli avvenimenti più importanti della sua esperienza vengono così liquidati come le aberrazioni di una sindrome. E proprio quel comportamento, che ha contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del prigioniero, viene giudicato quasi sconveniente. Avvicinarsi a un criminale non è una malattia. Crearsi un bozzolo di normalità nell’ambito di un crimine non è una sindrome. Al contrario. È una strategia di sopravvivenza in una situazione senza via di uscita, ed è più fedele alla realtà di qualsiasi piatta categorizzazione dei criminali in bestie sanguinarie e delle vittime in agnelli indifesi, davanti alla quale la società si ferma volentieri.”
Natascha Kampusch, 3096 Days

Natascha Kampusch
“Crimini come quello da me subito, permettono di stabilire il contrasto stridente, bianco e nero, che sta alla base delle categorie del Bene e del Male sulle quali si regge la società. Il rapitore deve essere una bestia, in modo che possiamo rimanere dalla parte del Bene. Bisogna arricchire il suo crimine di fantasie sado-maso e di orge selvagge, in modo che si allontani il più possibile dalla nostra vita, finché non avrà più niente a che fare con essa. E la vittima deve essere una persona distrutta e rimanere tale, in modo che l’esternazione del Male sia possibile. Una vittima che non accetta questo ruolo, personifica la contraddizione esistente nella società. E questo nessuno desidera vederlo. Perché allora ci si dovrebbe confrontare con se stessi. È per questo motivo che in alcune persone io suscito un’inconsapevole ostilità. Forse è il tipo di crimine e tutto quello che mi è successo, a suscitare astio. E poiché dopo la morte del rapitore, io sono la sola persona disponibile, questa ostilità ricade su di me. In un modo particolarmente violento, quando voglio costringere la società a vedere. Che il criminale che mi ha rapita era anche un essere umano. Uno che ha vissuto in mezzo a loro. Chi può reagire anonimamente, postando un messaggio in internet, sfoga il proprio odio direttamente su di me. È l’odio che la società prova per se stessa quando è costretta a tornare sui suoi passi e a chiedersi perché tollera cose del genere. Perché le persone che vivono in mezzo a noi possano uscire dalla carreggiata così, senza che nessuno se ne accorga. Per otto anni. Coloro che mi stanno di fronte durante le interviste e gli incontri pubblici, agiscono in un modo più raffinato: fanno di me – l’unica persona che ha sperimentato la prigionia – una vittima per la seconda volta, usando una semplice espressione. Dicono soltanto: “sindrome di Stoccolma”.”
Natascha Kampusch, 3096 Days